STORIA

 

Alla fine del XVI sec., nel corso di una grave epidemia di peste, diversi devoti lancianesi, vedendo che nelle campagne e, talvolta, anche in città, molti defunti poveri rimanevano insepolti, cominciarono a dare una cristiana sepoltura a chi moriva in povertà, accompagnando liturgicamente i loro cadaveri e suffragandoli con il sant’uffizio della messa.

Si assolveva così l’impegno della prima Compagnia Confraternale di “gentiluomini” lancianesi: i Confratelli “facevano la carità” di portare a spalla i cadaveri di dentro e fuori le mura della città, dalla casa del defunto alla chiesa parrocchiale o ad altra chiesa destinata per l’inumazione. Essi indossavano una tunica nera legata alla vita con un cordone di crine nera e si coprivano la bocca e il naso con un panno bianco perché molti cadaveri, abbandonati per lungo tempo, erano già in via di decomposizione.

 

Col passare del tempo questi decisero di dare vita ad una Compagnia stabile, dato che in quegli anni avevano acquistato sempre più la fiducia e la protezione dei prelati della Diocesi, ma soprattutto l’ammirazione e la gratitudine della popolazione per la loro opera pietosa di dare sepoltura ai defunti e perchè mostravano zelo nella pia pratica dell’orazione e nell’aiuto ai bisognosi. Ebbe così origine la Confraternita della Buona Morte e Orazione in Lanciano, costituita da una Compagnia di “gentiluomini” adoranti l’effigie del Cristo Morto, che ebbe la sua prima sede all’interno della chiesa parrocchiale di San Martino, nel quartiere di Lanciano Vecchia, nella quale rimase per circa tredici anni.

Poiché i Sommi Pontefici concedevano benefici spirituali ed indulgenze, per godere di tali opere, la Confraternita si diede il titolo della “Buona Morte” e si rivolse all’Arciconfraternita della “Morte e Orazione” di Roma, nata con le stesse finalità, per essere ad essa aggregata.

Infatti il Pontefice Pio IV, con la bolla “Divina Providentiale Clementia“, del 17.XI.1560, aveva concesso all’Arciconfraternita di Roma il diritto di fondare ed aggregare altre Confraternite, che, ovunque fondate, avrebbero goduto delle indulgenze e dei privilegi concessi all’Arciconfraternita madre di Roma.

Fu cos’ì che il 25 Maggio dell’anno 1608 la Confraternita venne ascritta all’Arciconfraternita di Roma.

Con il passare degli anni i Confratelli si resero conto che la loro attività poco conciliava con l’operato della parrocchia per cui con le elemosine ed i lasciti acquisiti comprarono un sito nel quartiere del Borgo e vi costruirono una Chiesa dedicandola al Patriarca San Giuseppe protettore della Buona Morte.

Il sito si trovava presso il Convento dei Frati Conventuali, lungo la strada a sinistra verso la porta della città detta di Sant’Angelo, la strada odierna che va dalla chiesa del Miracolo Eucaristico sino a sfociare nel piazzale della Pietrosa.

La richiesta della costruzione della Chiesa fu approvata dall’Arcivescovo Romero il 19.X.1620, mentre il passaggio alla nuova chiesa avvenne, dopo che fu benedetta dall’Arcivescovo Gervasio, il 02. VII. 1622 dove fu traslata la Compagnia della Morte.

 

 

I Confratelli, pian piano, si avvicinarono sempre più con fede e devozione al culto di San Filippo Neri, facendo diventare la Chiesa un Oratorio dedicato a questo Santo ed assumendo un altro fine: quello della vestizione degli ignudi.

Per tutto ciò la Confraternita ottenne un diploma datato 07.I.1777, munito di Regio assenso col quale si aggiungeva  all’originario titolo della “Compagnia della Morte e Orazione” quello di “sotto la protezione di San Filippo Neri”.

Con il passare degli anni, il numero degli iscritti alla Confraternita aumentò notevolmente, ciò contribuì ad incrementare il suo prestigio ed autorità, sin ad arrivare a chiedere il riconoscimento ufficiale alla Corte di Napoli che non mancò di concederlo.

La Confraternita, grazie alle innumerevoli somme di denaro e di beni di cui disponeva a seguito delle numerose donazioni, divenne nella seconda metà del 1700 una realtà non solo religiosa, ma anche economica, per questo si decise di scindere quella religiosa da quella laica, costituendo per quanto riguarda la prima finalità il Sacro Monte dei Morti mentre per la seconda intenzione si costituì il Sacro Monte di Pietà o Frumentario.

La Confraternita si occupò ancora delle tumulazioni e dell’accompagnamento dei cadaveri nelle Chiese fino a tutta la prima metà dell’ 800,  quanto una serie di leggi ed editti stabilirono che le sepolture dovessero essere eseguite esclusivamente nei cimiteri, da questo momento l’Arciconfraternita si dedica maggiormente al culto del Cristo Morto.

Dal 1915 al 1945 l’umanità dovette affrontare, in uno spazio temporale molto breve, due conflitti mondiali con innumerevoli atrocità.

Alla fine della 2° Guerra Mondiale ciò che restava della vecchia chiesa di San Filippo Neri, già San Giuseppe del Borgo, non era altro che un edificio pericolante, così nel 1952, l’Arcivescovo Mons. Benigno Migliorini volendo concedere una collocazione più decorosa ed appropriata alla Confraternita, in modo particolare per il culto tanto sentito dal popolo lancianese nei confronti del Cristo Morto, promulgò un suo decreto il 03. XI. 1952 con cui dispose il trasferimento “in Perpetuo” della Confraternita dalla Chiesa di San Filippo Neri alla chiesa di Santa Chiara, adiacente all’antico e in disuso convento di clarisse; di tale trasferimento fa fede la lapide murata nella parete destra della Chiesa.

Questo trasferimento, però, non si rivelò favorevole per quanto riguarda la vita dell’Arciconfraternita, che affrontò in seguito un periodo di decadenza, con un forte calo nel numero dei confratelli e notevoli difficoltà nel proseguire il culto del Cristo Morto e le tradizioni della Settimana Santa.

Nella vita più recente dell’Arciconfraternita, grazie alla dedizione di tutti coloro che si sono succeduti alla guida del Sodalizio, nonchè dei Confratelli e delle Consorelle , si sono di nuovo rivitalizzate le tradizioni  di culto tralasciate e dimenticate con il passare degli anni, ed oggi, oltre alla organizzazione dei centenari riti della Settimana Santa, la Confraternita opera concretamente nel sociale e nel culturale con una serie di iniziative che si svolgono nel corso dell’intero anno.

Approfondimenti Storici

Quattro secoli di storia

 

Il Seicento

Le fonti dirette per una ricostruzione completa della storia dell’Arciconfraternita della Morte e Orazione sono, in particolare per quanto riguarda la documentazione anteriore agli ultimi due secoli, assai incomplete e lacunose.

L’Archivio Storico dell’Arciconfraternita, dopo le inevitabili quanto deprecabili perdite seguite allo spostamento della sede nella Chiesa di Santa Chiara, nel 1952, è stato recuperato e sottoposto ad un sommario ma provvidenziale riordino negli anni passati. La documentazione più antica è raccolta in un volume, che riporta trascrizioni di rogiti riguardanti principalmente il patrimonio del sodalizio e altri vari documenti, a partire dal 1718[1](fig. 2).

L’archivio vero è proprio è costituito da documenti posteriori agli anni 1834 – 1835, spesso in uno stato di conservazione molto precario, e dai registri dei verbali, che iniziano dal 1863.

Documentazione più antica è reperibile presso l’Archivio Storico Diocesano di Lanciano.

 

Già alla fine del ’500, stando alla tradizione[2], alcuni lancianesi appartenenti alle più importanti famiglie, prendendo a modello la Confraternita della Morte, sorta a Roma sotto il pontificato di Paolo III per dare delle onorevoli esequie ai cadaveri che rimanevano insepolti, decisero di associarsi per portare avanti questa pia opera di misericordia corporale alla quale si aggiunse la solenne pratica delle Quarantore, l’adorazione eucaristica che si svolge durante la Settimana Santa, per la durata di quaranta ore, il tempo che, si riteneva, Cristo rimase nel sepolcro.

La devota consuetudine, che risale agli albori del XVI secolo, comporta l’esposizione del Santissimo Sacramento sull’altare, decorosamente ornato di fiori e di ceri, e la preghiera ininterrotta dei fedeli, veniva ripetuta anche altre tre volte nell’arco dell’anno, in occasione della ricorrenza delle Tempora di estate, autunno e inverno.

 

Il pio sodalizio romano, che fu modello per i lancianesi, ha sede, ancor oggi, nella chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte in Via Giulia (fig. 3), tra il celebre e omonimo Arco e il non meno noto Palazzo Falconieri, che edificata nel 1575 fu poi ricostruita fra il 1733 e il 1737 dall’architetto Ferdinando Fuga[3] che la elesse anche luogo della sua sepoltura.

La facciata è a due ordini di colonne, mentre ai lati vi sono due corpi minori con finestre ovali sopra gli ingressi. Insolito il ricorrente elemento decorativo del teschio, alludente all’emblema della confraternita, che tanto incuriosisce ancor oggi i turisti che si trovano a passare davanti al sacro edificio.

L’interno, con due cappelle per lato e sovrastato da un’ampia cupola, costituisce uno splendido insieme di arte settecentesca, caratterizzato da un ricco apparato ornamentale nel quale si ritrovano continui riferimenti al macabro e alla vita post mortem.

L’altare maggiore è dominato dalla maestosa Crocifissione di Ciro Ferri (1634 – 13 settembre 1689) ma vi sono altre numerose opere d’arte. Nella prima cappella a destra troviamo lo Sposalizio mistico di Santa Caterina del XVI secolo. Tra la prima e la seconda cappella destra, Sant’Antonio Abate e San Paolo di Tebe, di Giovanni Lanfranco (Parma, 26 gennaio 1582 – Roma, 30 novembre 1647). Nella seconda cappella, realizzata dall’architetto Paolo Posi (Siena, 1708 – Roma, 1776), una buona copia del San Michele Arcangelo di Guido Reni (Bologna, 4 novembre 1575 – Bologna, 18 agosto 1642).

Nella prima cappella a sinistra troviamo il Riposo durante la  fuga in Egitto di Lorenzo Masucci (? – 1785). Tra la seconda e la prima cappella, sempre a sinistra, San Simeone Stilita, anche questa, come le precedenti, opera del Lanfranco, mentre l’altare della seconda cappella sullo stesso lato è ornato dal dipinto di Pier Leone Ghezzi (28 giugno 1674 – marzo 1755) Santa Giuliana Falconieri riceve l’abito da San Filippo Benizi, risalente al 1740.

 

Nel sotterraneo è possibile visitare quanto resta dell’antico e suggestivo cimitero confraternale.

Sotto il pontificato di Pio IV (1559 – 1565), la compagnia romana assunse, per volontà del Santo Padre, la denominazione di “Morte e Orazione” e venne eretta in Arciconfraternita con facoltà di aggregare altri sodalizi.

 

Tra i fattori che portarono allo nascita della Confraternita o forse ad una sua più corretta organizzazione, è forse possibile considerare l’influenza del pio e benemerito Monsignor Paolo Tasso, Arcivescovo di Lanciano tra l’aprile del 1588 e il settembre del 1607, così come la preoccupazione per le possibili conseguenze di una nuova epidemia di peste, che andò diffondendosi, come riportato da Florindo Carabba[4], nel 1606.

La città di Lanciano a cavallo tra il XVI e il XVII aveva un popolazione di circa 8000 abitanti, destinata a calare nei decenni successivi. Nonostante godesse ancora dei numerosi privilegi concessi dai Sovrani napoletani, confermati da Filippo III proprio nel 1608, subì le conseguenze del dominio spagnolo e fu costretta prima alla vendita dei feudi, nel 1624, e poi alla perdita della demanialità avvenuta nel 1629, con l’aprirsi di una causa che si prolungò per diversi decenni.

In questo contesto, il 25 maggio 1608, venne riconosciuta l’aggregazione della confraternita lancianese, la cui prima sede fu la chiesa di San Martino nel quartiere di Lancianovecchio, all’Arciconfraternita della Morte e Orazione di Roma.

L’atto di aggregazione[5] (fig. 1) riporta il nome di Cesare Saraceni[6] quale primo procuratore dei confratelli. Non ci sono pervenute notizie che possano chiarirci la sua identità, ma con ogni probabilità è identificabile con don Cesare Saraceno di Casal Bordino il quale fu ordinato il 6 aprile 1601 e aggregato alla chiesa parrocchiale di San Nicola e l’11 novembre 1612 divenendo canonico della Cattedrale.

Ben presto il sodalizio dovette rendere conto delle sue attività ed è del 13 gennaio 1613 la richiesta del Vicario Generale dell’Arcivescovo, don Alessandro Caramanico, alle Confraternite, tra le quali è citata quella della Morte, di rendere conto della loro amministrazione, ordine che venne ribadito il 13 aprile del 1617, mentre è del 29 maggio di quel anno l’invito a presentare l’inventario di tutti i beni[7].

 

I timori per la pestilenza del 1606 si rivelarono infondati e lo stesso avvenne tra il 1628 e 1629, quando, dopo una terribile carestia, le città vennero prese d’assalto da vagabondi e mendicanti in cerca di condizioni di vita migliori rispetto alle campagne, portando come conseguenza il terribile contagio, ma l’epidemia, che è quella descritta da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi, sconvolse il nord d’Italia senza toccare la nostra regione e i confratelli furono occupati soprattutto nella costruzione della loro chiesa nel quartiere del Borgo consacrata, tra il 1622 e il 1623[8], a San Giuseppe sposo di Maria, invocato come Protettore della “buona morte”.

 

La venerazione per San Giuseppe, è assai antica e risale ai primi secoli del Cristianesimo come testimoniato dal testo apocrifo a lui dedicato, Storia di Giuseppe il falegname, che risale con tutta probabilità al VI secolo[9].

Tra le vicende agiografiche che vi sono narrate una parte importante, e assai originale rispetto a quanto riportato in altri vangeli apocrifi, è dedicata alla morte del Santo Patriarca, il quale, avendo accettato in sposa Maria acconsentendo a divenire padre putativo del Redentore, avrebbe avuto il dono di una molta dolcissima, a centoundici anni secondo la tradizione, senza sofferenza.

L’apocrifo riporta anche quella che sarebbe stata la sua toccante preghiera:

 

[13, 1] “ Dio, autore di ogni consolazione (2 Cor 1, 3), Dio di ogni misericordia e Signore di tutto il genere umano, Dio della mia anima, del mio spirito e del mio corpo. Supplichevole, io ti venero, o Signore e Dio mio: se ormai sono terminati i miei giorni ed é giunto il momento nel quale debbo uscire da questo mondo, inviami, te ne prego, il grande Michele principe dei tuoi angeli santi, e resti con me affinché la mia povera anima esca senza difficoltà, senza paura e senza impazienza da questo corpo travagliato.

[2] Una grande paura e una veemente tristezza si impadronisce infatti dei corpi nel giorno della loro morte, sia che si tratti di un maschio che di una femmina, di un animale domestico o di una bestia selvatica, di un essere che cammina sulla terra o vola nell’aria: in conclusione, grande é la paura e immenso lo sfinimento che attanaglia le anime quando escono dai loro corpi e ciò vale per tutte le creature che sono sotto il cielo e hanno in se stesse uno spirito vitale (Gn 6, 17), tutte sono scosse da paura.

[3] Or dunque, o Signore e Dio mio, sia presente con il suo aiuto alla mia anima e al mio corpo il tuo angelo santo fino a quando si saranno separati. Non sia allontanata da me la faccia dell’angelo che mi é stato dato come custode dal giorno della mia formazione, mi sia invece compagno di viaggio fino a quando mi condurrà fino a te: il suo volto mi sia sereno e ilare, e mi accompagni in pace.

[4] Non permettere invece che, fino a quando io sarò giunto felicemente a te – sulla strada che avrò da percorrere – mi si avvicinino demoni dall’aspetto spaventoso. Non permettere che i portieri impediscano all’anima mia l’ingresso in paradiso. Scoprendo i miei delitti, non espormi alla vergogna davanti al tuo terribile tribunale. Non mi assalgano i leoni. I flutti del mare di fuoco (Dn 7, 10) – che ogni anima deve attraversare – non sommergano l’anima mia prima che sia giunta a contemplare la gloria della tua divinità.

O Dio, giudice giustissimo (2 Tm 4, 8), tu che giudicherai i mortali con giustizia e equità (Sal 97, 9), e darai a ognuno secondo le sue opere, o Signore e Dio mio, stammi vicino con la tua misericordia, e illumina la mia vita affinché io giunga a te: tu sei, infatti, la sorgente ripiena di ogni bene e di gloria in eterno. Amen”[10].

 

La figura di San Giuseppe era quindi oggetto di diffusa venerazione popolare, testimoniata sia dalla frequenza del nome Giuseppe in tutti gli ambiti sociali, sia dalla ricca produzione artistica dedicata al Santo.

Purtroppo la statua del Santo posseduta dalla Confraternita e documentata fino allo spostamento a Santa Chiara, è andata perduta anche se pare ne rimangano il bastone fiorito e un cuore d’argento che oggi ornano la statua collocata su uno degli altari laterali della chiesa parrocchiale di Santa Lucia (fig. 4).

La statua antica non doveva essere molto dissimile da quella che ancora oggi si trova in una nicchia nella sagrestia di Santa Maria Maggiore (fig. 5), realizzata in ambito napoletano alla metà del secolo XIX. Il simulacro, in legno scolpito e dipinto, tessuto e con i tipici elementi iconografici, il bastone fiorito e il cuore(fig. 6) in argento, raffigura il Santo frontalmente,  con il braccio sinistro piegato all’altezza del fianco a sorreggere il Bambino mentre la mano destra tiene il bastone (fig 7).

Nella chiesa di Santa Maria Maggiore, si trova un’altra bella opera, un dipinto di scuola napoletana (fig 8) risalente al XVIII secolo, nel quale il Santo Patriarca è rappresentato a metà figura, leggermente girato di profilo, in atto di stringere e di appoggiarsi al bastone fiorito, suo attributo iconografico. L’opera è impreziosita da una raffinata cornice coeva, in legno dorato, decorata con intagli a girali di foglie. Sempre per quanto riguarda le opere pittoriche è degno di nota anche l’ovale dipinto d’ambito romano del primo quarto dell’800, raffigurante San Giuseppe ed il Bambino (fig 9) che si trovava nella Cappella della Confraternita dell’Addolorata di Santa Lucia[11] e oggi al Museo Diocesano.

La devozione per il Santo Patriarca non si fermava certo entro i confini della Cappella Confraternale ma aveva, come già detto, ampia diffusione anche negli ambiti delle pratiche religiose private come mirabilmente testimoniato dallo straordinario San Giuseppe (fig. 10) scultura lignea napoletana, risalente al ‘700, un tempo oggetto della pia devozione della famiglia Stella Maranca Antinori, presso il cui oratorio di palazzo si trovava. L’opera rappresenta il Santo a figura intera, vestito di un ricco abito e di un ampio mantello con ai piedi eleganti calzari. Il curatissimo lavoro d’intaglio è impreziosito dall’aureola e dal bastone fiorito, entrambi in argento sbalzato e cesellato. Colpisce la tenerezza, quasi dolente, di San Giuseppe che teneramente tiene il Bambino serenamente assopito sulla sua spalla mentre con una mano ne sostiene amorosamente il piccolo piede paffuto.

Sempre alla medesima famiglia apparteneva un altro importante dipinto che ha per soggetto San Giuseppe (fig. 11) attribuito all’abile mano del pittore Giacinto Diano (Pozzuoli 28 marzo 1731 – Napoli 3 agosto 1803) ed è passato da questa al Museo Diocesano.

Più modesti per epoca ed esecuzione sono un popolare San Giuseppe (fig. 12) realizzato in legno, stucco e tessuto risalente della seconda metà dell’ottocento, ancora con il suo scarabattolo in legno intagliato e un San Giuseppe (fig. 13) in carta pesta, circondato da un padiglione fiorito e destinato ad essere conservato, come era d’uso un tempo per questi assai delicati oggetti, sotto una campana di vetro.

Pure interessanti si rivelerebbero certamente altre due opere, una scultura e un dipinto, ora nei depositi del Museo Diocesano. La scultura è in cartapesta (fig. 14) con elementi in legno per la struttura, risale al XIX secolo e purtroppo non ne è nota la provenienza, il dipinto (fig. 15) invece, di piccole dimensioni, si trovava un tempo nella chiesa di San Bartolomeo, lungo il viale dei Cappuccini. Di sicura esecuzione tardo settecentesca l’opera è purtroppo compromessa da alcune lacerazioni ma ci restituisce la bella immagine di San Giuseppe, riconoscibile dal bastone fiorito, col Bambino in atto di cingergli il capo con una corona di fiori.

 

Durante la prima metà del ‘600 il Sodalizio crebbe e, dopo la costruzione della nuova chiesa, numerosi furono coloro che morendo lasciarono legati a beneficio dell’anima loro e a favore della Confraternita, come si può evincere da numerosi atti notarili dell’epoca riportati dal Bocache.

Già nel 1632 quindi troviamo traccia nei documenti del primo ampliamento della chiesa con l’acquisto, da parte dei procuratori dottor Antonio Palizzi, Don Giovanni Capretti e il Magnifico Pietro Rossi, con l’assistenza del notaio Giangiacomo De Giorgio, di un fabbricato contiguo alla fabbrica del più antico nucleo della cappella.

 

Dal 17 marzo del 1635, secondo quanto tramandato dal Bocache che consultò un documento oggi perduto, la Confraternita aggiunse al titolo originario quello dell’Immacolata Concezione di Maria che le venne attribuito per lo zelo del Reverendo Padre Giovan Domenico Caputi, Gesuita, il quale trovandosi in Lanciano come predicatore volle avvicinare i confratelli, tutti appartenenti ai più distinti casati cittadini, alla Compagnia di Gesù.

 

I timori per le conseguenze di un’epidemia, ai quali si accennava in precedenza, trovarono invece una triste conferma nella violenta pestilenza che colpì la Città poco più di vent’anni dopo.

 

L’epidemia iniziò intorno al giugno del 1656 e meno di un anno dopo, nel marzo del 1657 essa aveva praticamente dimezzato la popolazione. La pestilenza del 1656 fu particolarmente disastrosa per tutta l’Italia meridionale. Il contagio, che si diffuse rapidamente tra tutte le classi sociali, ebbe inizio probabilmente in seguito alla fiera della primavera di quell’anno, forse portata dei mercanti sbarcati nel porto di Ortona. In breve per tutta la città si sparse, insieme all’allarme, il terribile morbo. La peste infierì atrocemente tanto che nel libro dei Morti della chiesa parrocchiale di San Martino si trova l’annotazione “Tempore quo homines degebant in tenebra e umbra mortis 1656”. I casi di morte aumentarono progressivamente  e si può solo immaginare quale dovettero essere l’impegno, l’abnegazione e il sacrificio dei confratelli della Morte in quei mesi per garantire a tutti il pietoso ufficio di una dignitosa sepoltura. Molti di loro, è indubbio, pagarono col prezzo stesso della loro vita questo impegno in soccorso di una popolazione sbigottita nelle fasi più acute del contagio quando i cadaveri a decine e centinaia erano gettati a mucchi nelle strade, poi caricati su carretti per essere bruciati o sepolti in grandi fosse comuni. In una di queste, ricavata in un pozzo “di Piccirillo” nei pressi del convento di Sant’Antonio Abate che sorgeva attiguo al ponte dell’Ammazzo, nel versante di Lancianovecchio finirono nel settembre del 1656 il sedicenne Alessandro di Suna e poi suo zio il Canonico Giovan Giuseppe e altri membri della stessa famiglia[12]. I morti del Borgo furono seppelliti in un pozzo vicino la porta di Sant’Angelo, altri ancora sotto la chiesa di Santa Lucia. I registri parrocchiali in quei mesi presentano numerose lacune dovute alla morte, o talvolta alla fuga, dei parroci. Persino i notai, come riportato dal Carabba, erano costretti a ricevere i testamenti degli appestati dalle finestre per evitare il contagio.

Fortunatamente l’epidemia lentamente regredì e nel 1658 la vita, per coloro che erano sopravvissuti, sembra, leggendo i documenti, riprendere abbastanza normalmente. Nonostante il drastico calo della popolazione e la scomparsa anche di molti confratelli il sodalizio continuò, forse anche grazie allo zelo dei suoi membri durante l’epidemia, a ricevere lasciati e donazioni e vi devono essere state anche nuove ammissioni di confratelli in subentro di coloro che erano stati rapiti alla vita terrena dal terribile morbo, spesso insieme alle loro famiglie.

 

L’ingresso nella Confraternita nella quale, come confermato dal Bocache “non venivano ammessi altri Fratelli che Dottori, Gentiluomini e Mercatanti ed altri di questo genere, escludendo gli artigiani eccetto quattro, i quali avevano il solo voto attivo, ma non potevano accedere a cariche onorevoli essendo ricevuti a solo servizio della Confraternita e unicamente per godere frutti speciali…”era assai ambito poiché, grazie all’aggregazione del 1608, venivano riconosciuti ai membri del pio sodalizio lancianese quei medesimi privilegi dei quali godeva la confraternita romana e che andarono accrescendosi nel corso dei secoli per i molti benefici concessi dalle Bolle dei Papi Pio VI, Paolo III, Paolo V, Clemente VIII, Clemente X e altri Pontefici.

 

I confratelli, nel giorno del loro ingresso nel Sodalizio, potevano lucrare di un indulgenza plenaria che era loro riconosciuta anche in articulo mortis, invocando almeno col cuore il Nome Santissimo di Cristo, ogni qualvolta si visitasse la chiesa dell’Arciconfraternita pregando secondo la personale devozione, nell’esposizione delle Quarantore soffermandosi a pregare per l’estirpazione delle eresie, per la concordia e la pace tra i Principi Cristiani e per la esaltazione della Santa Madre Chiesa, nel venerdì di Passione dedicato all’Addolorata, intervenendo alla novena o al triduo preparatorio, in occasione della festività della Natività di Maria e di quella di San Michele Arcangelo, intervenendo almeno cinque volte alla novena, visitando la chiesa dell’Arciconfraternita nella commemorazione dei fedeli defunti o nell’ottavario. Nelle festività dell’Esaltazione della Croce, di Gesù Nazzareno, di Santa Caterina e per l’adorazione nell’esposizione delle Quarantore.

 

Varie erano poi le indulgenze parziali come quella di quarant’anni riconosciuta per ciascun associazione di cadaveri in campagna.

Era invece di sette anni e altrettante quarantene per la visita in occasione dell’esposizione delle Quarantore nella chiesa dell’Arciconfraternita e per ciascuna associazione di cadaveri in Città.

Di tre anni ed altrettante quarantene visitando la chiesa dell’Arciconfraternita nel giorno di Natale, nel giorno dell’Invenzione della Croce, nella festività dell’Assunta e in occasione del Venerdì Santo e del Corpus Domini.

Di trecento giorni ed altrettante quarantene visitando la chiesa dell’Arciconfraternita, visitando l’esposizione del Santissimo nelle Quarantore ed assistendo ciascuna volta al solenne triduo per l’Addolorata, per la Natività di Maria Vergine e nella ricorrenza di San Michele Arcangelo.

Di cento giorni per la recita della corona dei morti in pubblico, di cinquanta se la recita fosse stata fatta i privato. Cento giorni di indulgenza erano anche riconosciuti per qualunque opera pia e di carità in qualunque circostanza, e cinquanta giorni in occasione delle festività della Purificazione e dell’Annunziata.[13]

 

Curiosi possono apparire ai nostri occhi i privilegi riconosciuti ai pii congregati, come il potersi far celebrare la messa in casa in caso di infermità o la dispensa dal digiuno ecclesiastico e dai cibi di magro nel giorno o giorni di Quaresima, Vigilie ecc. inclusi in una associazione in campagna.

 

Il godimento dei benefici era condizionato, però, al rispetto delle regole severe che la vita confraternale imponeva.

I confratelli si impegnavano a vivere una buona et santa vita, et procurare d’acquistare la Gratia del Signor’lddio, et in quella mantenersi con il mezzo de’ suoi Santissimi Sacramenti, et esercitio dell’opere della Misericordia animati da spirito di carità, di misericordia e di amore per il prossimo” sforzandosi.. “d’udir ogni giorno la santissima Messa; di recitare un Pater, un Ave e una Requiem aeternam per l’anime de’ Fratelli et Sorelle dell’Archiconfraternita ; di fare la carità  quando saranno chiamati. a seppellire li morti ; di confessarsi ogni mese; di visitare una volta l’anno  le sette chiese per l’anime de’ Morti; di recarsi ogni domenica o giorno festivo nell’Oratorio della Arciconfraternita per recitare il divin’Officio della Gloriosissíma Vergine Maria, et udire la Messa, all’Offertorio della quale faranno l’offerta, sforzandosi di fare qualche elemosina per sovvenire gl’infermi. Ancora dovranno intervenire a tutte le processioni, non mancando particolarmente alla processione che si fa infra l’ottava del Santissimo Sacramento, et il giorno del Venerdi Santo, nel quale suole l’Arciconfraternita andare a visitare la chiesa di S. Pietro dove si mostrano la Lancia, con la quale fu trafitto il Nostro Signore Giesù Cristo, et il Santissimo Sudario.

Essi dovevano inoltre offrire il loro contributo ogni anno per elemosina, et ricognitione dell’Archiconfraternita, et sovvenimento delle opere pie che in essa si esercitano, i fratelli doi carlini, et i fratelli di minore età di quattordici anni, uno, et similmente tutte le sorelle un carlino per ciascheduna.

L’elenco delle prescrizioni si conclude con l’affermazione che nessuno delli obblighi sopradetti astringa li Fratelli et Sorelle dell’Archiconfraternita, o Compagnie aggregate a essa all’osservanza, sotto pena di peccato mortale, o veniale, ma sia bastevole vincolo a ciascuno l’amor d’Iddio per causa del quale dovranno fare non solo questi et altri simili pii esercitii, ma tutto quello che potranno, ricordandosi che tutte l’opere pie fatte in gratia d’Iddio per suo amore, serviranno alla salute dell’anima per condurla alla Celeste Patria, godere l’eterna gloria et pace; il che Iddio per sua bontà, et misericordia ci concede. Amen[14].

 

Altro aspetto interessante è che la Confraternita sia nata come associazione esclusivamente di “gentiluomini” il che rimarrà un carattere abbastanza distintivo nel corso dei suoi quattro secoli di storia. Di essa fecero parte i cittadini di maggiore distinzione appartenenti alle più ragguardevoli famiglie lancianesi, in particolare del quartiere del Borgo, come furono quelle dei Palizzi, dei Rossi, dei Capretti, dei de Archangelis, dei de Giorgio, dei Feramosca, dei Mancini, dei Carabba, dei de’ Cecco, dei Caccianini, dei Petrelli, dei Liberatore, dei Pastoressi e di molte altre ancora.

 

Dall’epoca della fondazione, tra gli elementi immutati, vi è quello della veste[15] che pure essendo assai semplice assume profondi significati simbolici.

L’abito è costituita da una lunga tunica nera, detta sacco, uguale per tutti a sottolineare l’eguaglianza dei confratelli accomunati dalla fratellanza in Cristo.

Il nero non è percepito però, in questo caso, come colore distintivo del lutto ma viene riferito, simbolicamente, al colore della “terra grassa” dei cimiteri, quella terra che, allo stesso tempo, custodisce e rigenera, che accoglie tutta l’umanità nella attesa della Resurrezione.

I fianchi sono cinti da un cordone che nel numero dei nodi mostra ancora dei richiami simbolici – numerologici.

Segno distintivo della confraternita della Morte è il cappuccio nero che copre il volto, simbolo di penitenza e della modestia con la quale bisogna operare il bene, mentre un altro caratteristico elemento è costituito dalla pettorina o “bavarola”, un rettangolo di stoffa bianca plissettata che viene allacciato sotto la gola la cui funzione originaria era quella di essere alzato sul volto e legato dietro la nuca a protezione delle vie respiratorie durante il pio ufficio della raccolta e dell’inumazione dei defunti.

Di quanto l’attuale abito sia simile a quello dei primi anni di vita del sodalizio ci fornisce un’interessantissima testimonianza la figura riportata nell’opera di Cesare Vecellio[16] che ci ha tramandato un abito da confratello incappucciato della “buona morte” (fig. 17).

Nella xilografia possiamo distinguere, oltre all’inconfondibile “sacco” e al cappuccio, il medaglione sul petto, l’emblema del pellicano sul cappuccio. Nella mano sinistra vediamo un sistro, mentre nella destra tiene una tabella con l’immagine di Cristo.

Il medaglione sul petto è il segno distintivo dell’appartenenza alla confraternita, associato, nel caso dei diversi pii sodalizi, ai colori della tunica e della mozzetta, il corto mantello che copre le spalle.

L’emblema del pellicano rappresenta, nella simbologia cristiana, lo stesso Cristo. Secondo un’antica credenza il pellicano nutriva i suoi piccoli con la sua carne e il suo sangue, lacerandosi il petto col becco, da qui la similitudine con il sacrificio di Cristo che versa il sangue per la redenzione dell’umanità, che ha trasformato questo animale palustre in un simbolo di pietà, amore e carità per il prossimo. Il pellicano era anche presente, secondo quanto tramandato dai confratelli più anziani, sull’antica coltre funebre del simulacro del Cristo morto.

Il sistro, uno strumento costituito da dischi di metallo legati ad un supporto di legno o di cuoio, aveva la medesima funzione, delle raganelle o battole, veniva utilizzato durante i riti della Settimana Santa, ma era uno strumento processionale già all’epoca degli Egizi, associato al culto della dea Iside. Nella nostra diocesi se ne conosce un solo esemplare superstite nel patrimonio dell’Arciconfraternita di Maria Santissima della Pietà e Concezione presso la chiesa di Santa Maria Maggiore di Lanciano (fig. 18).

La tabella con l’immagine sacra richiama un altro importante compito delle Confraternite che era quello dell’assistenza ai condannati a morte. Non ci sono testimonianze documentali dell’attività dell’Arciconfraternita della Morte e Orazione di Lanciano in questo senso, ma era pratica diffusa nei secoli passati. L’immagine devozionale veniva posta davanti agli occhi del condannato al momento dell’esecuzione in modo da rivolgere la sua mente al mondo ultraterreno e ispirargli santi pensieri, confortandolo e agevolandone il distacco dalle pene del mondo[17].

 

E’ curioso notate la somiglianza, per certi versi, dell’abito confraternale con l’abbigliamento del medico della peste, come compare in un’acquaforte di Paulus Fürst del 1656 (fig. 19).

Durante l’epidemia di peste del 1656, a Roma, i medici ritenevano che questo abbigliamento proteggesse dal contagio. Indossavano una tunica cerata, guanti e una sorta di maschera protettiva al cui interno si trovavano sostanze aromatiche, considerate efficaci per contrastare il contagio.

 

Superata la violenta epidemia, la seconda metà del XVIII secolo vede progressivamente affermarsi, tra i membri della Confraternita la devozione, ancora oggi perdurante, per San Filippo Neri, forse stimolata dagli Oratoriani, o Filippini, presenti a Lanciano sin dal 1585, quando era stata loro affidata la vicina Abbazia di San Giovanni in Venere, in anni, quindi in cui Filippo Neri era ancora vivente.

All’ultimo quarto del ‘600 risale il reliquiario a busto del Santo segno tangibile di una devozione già pienamente sviluppata e matura che trova una conferma sia nei libretti musicali nei quali l’arciconfraternita è già definita sotto l’auspicii del glorioso S. Filippo Nerij, datati al 1714 – 1715, segnalati da Gianfranco Miscia nel suo saggio, sia nella notizia, ricavata dai documenti d’archivio, che la festa del Santo veniva già celebrata nel 1725.

 

Il Settecento

A poco meno di un secolo dall’aggregazione, il 12 luglio 1703, l’Arciconfraternita della Morte e orazione di Roma confermò i privilegi e le prerogative del sodalizio lancianese entrato in conflitto con l’Arcivescovo, come narrato dal Bocache e riportato dettagliatamente nel volume sulla confraternita pubblicato nel 2006.[18]

L’inizio del XVIII secolo vide anche la ricostruzione della primitiva chiesa di San Giuseppe danneggiata, pare gravemente dal terremoto del 1706[19].

Forse proprio nell’ambito di tali ristrutturazioni, nel 1721, la Confraternita occupò una stanza del convento di San Francesco, aprendo un varco dalla contigua sagrestia di San Giuseppe suscitando le rimostranze dei frati. La lite venne composta nel 1726, quando i frati cedettero, con atto di vendita rogato dal notaio Simone Peschio, la stanza, un tempo adibita a “deposito di legname e potatura di viti”, alla Confraternita per quaranta ducati di cui venti per l’acquisto e venti per le spese di giudizio sostenute dai frati. Tale stanza venne adibita a cimitero dei Confratelli[20], divenendo la cosiddetta “Terra Santa” quando, dopo il 1728, l’Arcivescovo Paternò volle onorare la confraternita col dono di un sacchetto di Terra Santa da spargere sui cadaveri dei confratelli inumati nella cripta della chiesa.

 

Gli anni tra il 1743 e il 1747 furono particolarmente importanti nella storia cittadina e nella vita della Confraternita per la presenza a Lanciano, come insegnante presso il locale Collegio delle Scuole Pie[21] tenuto dagli Scolopi, di San Pompilio Maria Pirrotti (fig. 20) il quale fu anche Direttore Spirituale dell’Arciconfraternita ed è ricordato per diversi eventi prodigiosi che vi compì.

Memorabile quello in occasione del terremoto 1746.

Avendo avuto, durante una preghiera notturna, la visione di una catastrofe imminente che stava per abbattersi sulla Città si recò in Cattedrale dove fece suonare a distesa le campane e alla gente accorsa allarmata, disse di mettersi a pregare con fervore la Madonna, per aver salva la vita da un terremoto imminente, infatti, Lanciano fu risparmiata dal sisma, mentre altre località abruzzesi, subirono ingenti danni.

Altrettanta fama ebbe il miracolo compiuto per il giovane Giovanni Capretti.

A memoria dell’evento, nel giorno della canonizzazione del Santo gli eredi Capretti fecero collocare una lapide commemorativa (fig. 21) lungo lo scalone del loro antico palazzo, in Corso Roma.

L’epigrafe[22], che ancora si trova laddove venne originariamente collocata, così recita:

 

TRA IL 1740 – 1744

IN QUESTA CASA

GIOVAN NICOLA CAPRETTI

ADOLESCENTE

PER GRAVE MORBO PRESSO A MORIRE

GRARIVA ISTANTANEAMENTE

PER LA PRESENZA E LE PRECI

DEL SUO MAESTRO

PADRE POMPILIO MARIA PIRROTTI SCOLOPIO

OGGI SANTIFICATO

 

A RICORDO DEL PRODIGIO

LA FAMIGLIA CAPRETTI

19 MARZO 1934

 

Durante la sua permanenza a Lanciano, oltre all’impegno come educare, San Pompilio profuse molte energie nel dedicarsi, così come aveva fatto nella sua precedente sede, a Francavilla Fontana, alle cure della Confraternita della Morte ed Orazione.

I confratelli, sotto la direzione spirituale di San Pompilio, si riunivano, come tramandatoci dal Bocache[23] in un:

 …soccorpo devotissimo dove sono ordinate sei casse per allogare i cadaveri aspersi di Terra Sacra ed il Cimitero per conservare le osse de’ Fratelli e Sorelle tanto della Congregazione, quanto del Monte del Suffragio. Vi resta anche una stanza ben ordinata che chiamano, non so per qual ragione, Spezieria, dove si conservano i teschi spurgati de’ Fratelli defunti col di loro nome in fronte per averne presente la loro memoria … Nel Venerdì Santo evvi una funzione devotissima esponendosi il Cristo defunto con la Vergine Addolorata e le tre Marie, parata la Chiesa a bruno, col discorso pubblico la sera.

Osvaldo Tosti[24], biografo del Santo, afferma che: E’ attraverso la direzione spirituale della “Congregazione della Morte e Orazione”, forse ancor più che attraverso la scuola, che il P. Pompilio esercitò la sua benefica influenza nell’ambiente lancianese, mentre Fèlix Làzaro Matinez sostiene che: la actividad apostolica de padre espiritual de esta Archiconfraternitad resulta de gran interès, no sòlo por el influjo que haya podio tener en el mismo espìritu de Pompilio Maria, sino porque el documento en el que proporziona un dato cronologico muy precioso, para determinar el paradero del santo en estos anos, sottolineando la especial inclinaciòn per la devoluciòn de las almas del purgatorio da parte del Santo sempre così vicino a el pensamiento de la muerte.

Prova lampante di questo profondo rapporto tra il padre Scolopio e i cittadini lancianesi è la diffusione del nome Pompilio tra i giovani nati in quegli anni a Lanciano. Pompilio è il nome imposto al fratello più piccolo del miracolato Giovanni Capretti, nato nel 1744, mentre un altro Pompilio[25] nasce l’anno successivo in casa Maranca dal Magnifico Giuseppe Maranca, il cui fratello Filippo è marito di Concezia Capretti, e da Vittoria Pantaleone.

Il nome ritorna anche nelle famiglie Bussolo e Spoltore, presso le quali è stato tramandato fino ai nostri giorni.

 

Il carisma di padre Pompilio esercitò quindi un grande ascendente sui lancianesi e sulle genti dell’intero territorio frentano. A Tornareccio, nel Giovedì Santo del 1747, la sua predicazione raggiunse un momento di grande commozione, come si può desumere dagli atti del processo di beatificazione dove si riporta che egli, terminate le sacre funzioni antimeridiane:

 con una croce di legno, pesante sulle spalle, corona di spine sul capo, a piedi nudi, nelle gambe postesi due forge di ferro e con dette due catene trascinandole in compagnia di alcuni altri ecclesiastici di quel Comune… sicché fece un viaggio di tal forma di penitenze per cammino disopra a sette miglia, e per strade di campagna spinose, molto sassose e di salite…

Ma il 5 novembre successivo, a pochi giorni dalle celebrazioni per la commemorazione dei defunti, P. Manconi così scriveva a Padre Provinciale Calò: Stimerei ben fatto che V. R., con qualche prudente mezzo termine, allontanasse dalla Diocesi di Chieti e Lanciano il P. Pompilio, nelle quali intendo che gli sia sospesa la facoltà di predicare.

La Congregazione Generale, il 21 luglio 1747, ne deliberò l’immediato allontanamento da Lanciano e il suo trasferimento a Napoli, presso la chiesa di Santa Maria di Caravaggio.

 

Il pensiero della vita ultraterrena permeò ogni azione del Santo, come concordemente ritenuto dai suoi biografi, che fu particolarmente premuroso nelle pratiche di devozione verso i defunti ed in suffragio delle anime del Purgatorio tanto da fondare successivamente a Napoli una confraternita omologa a quella lancianese con la differenza ch’essa era aperta a tutti e non solo ai notabili come nel capoluogo frentano.

La confraternita della Carità di Dio e di Maria SS. del Suffragio, fondata nel 1754, ebbe sede proprio presso il collegio scolopio e Fèlix Làzaro Martinez[26], biografo di San Pompilio, sostiene che il sodalizio sia stata fondata dal Santo a seguito dei risultati straordinari che si ottenevano in favore dei defunti allorché lo stesso Santo, scendendo con frequenza nella cripta della chiesa, levava al cielo preghiere per le anime del Purgatorio e vi teneva alcuni pii esercizi in loro favore.

 

Dopo molteplici patimenti e peregrinazioni, il 13 luglio 1766, mentre si trovava in Campi Salentina, dopo aver celebrato la Messa domenicale, si mise nel confessionale, ma ebbe un malore e fu trasportato a letto dove morì il 15 luglio all’età di 56 anni.

Era giunto quel momento del quale molti anni prima scriveva:

 

…ormai è vicino il tempo della nostra salute, e la chiara luce di Dio ci illuminerà nell’oscura notte di questo mondo, e dopo la tempesta ci si rasserenerà il cielo e sarà a noi, siccome agli altri che patiscono per amor di Cristo, data nella vita presente la pazienza, mediante la quale riceveremo l’eterna mercè. Allegramente! Questa vita è brieve, se siamo oggi non saremo dimane. Allegramente! Nel Paradiso voglio sforzarmi di fabbricare un Palazzone per tutti i nostri Parenti. Allegramente! Là godremo; qui solo si patisce. Perseveranza![27])

 

I resti mortali di San Pompilio Maria sono custoditi da allora nella chiesa santuario dei Padri Scolopi di Campi Salentina (fig. 22). Leone XIII (1878-1903), il 17 novembre 1878 lo dichiarò Venerabile ed il 26 gennaio 1890 lo beatificò nella basilica di San Pietro in Vaticano. Fu canonizzato il 19 marzo 1934, da Pio XI insieme a San Giuseppe Benedetto Cottolengo, e i confratelli acquistarono subito una sua effige (fig. 23) da esporre alla venerazione dei fedeli. La sua memoria liturgica è stata fissata al 15 luglio[28].

 

Nella seconda metà del ‘700 l’impegno dei confratelli in soccorso dei poveri si ampliò, grazie ai lasciti di alcuni benemeriti, che vollero istituire un fondo per la “vestizione degli ignudi”.

Il Bocache ricorda il canonico don Giuseppe Cappuccini, il quale, con atto del 23 settembre 1751, donò a tale scopo una casa di quattro stanze nel quartiere di Lancianovecchio, ed è probabilmente da identificare con l’ignoto benefattore che con atto del 31 gennaio 1757 fece ulteriormente dono della rilevante somma di cento ducati.

Un altro legato importante fu quello del sacerdote don Giuseppe Capretti[29], identificabile nel fratellastro di don Giovanni Capretti, del quale si è già scritto a proposito dei miracoli compiuti per intercessione di San Pompilio, il quale, con atto del giorno 11 maggio 1774, erogò una somma per la vestizione dei poveri riservando ai membri della sua famiglia il diritto di indicare i nomi dei beneficiari.[30]

 

Con una petizione del 16 novembre 1776, controfirmata da ventotto confratelli, l’Arciconfraternita chiese ed ottenne, con diploma del 7 gennaio 1777[31] (fig. 24), il riconoscimento Regale, formalizzando, oltre alle regole da rispettarsi, l’aggiunta all’originario titolo della “compagnia della Morte e Orazione” la dizione “sotto la protezione di San Filippo Neri”a conferma di una devozione già sviluppatasi dalla fine del ‘600 e documentata già nei primi anni del secolo successivo.

 

L’Ottocento

Le vicende dell’Arciconfraternita, tra la fine del ‘700 e l’inizio del secolo successivo, in concomitanza del dominio napoleonico, sotto la spinta delle istanze illuministe che mettevano in discussione l’esistenza stessa delle istituzioni a carattere religioso, devono essere state particolarmente turbolente e cristallizzate nella descrizione, forse un po’ ingenerosa, che il sindaco dell’epoca Simone Peschio ne rende nel suo “Rapporto a Giuseppe Napoleone sullo stato della Città”[32] stilato nel 1806:

 

Vi sono inoltre molte congregazioni laicali, che sono piuttosto adunanze di ambiziosi ed intriganti piuttosto che luoghi ove esercitarsi alla vera vita cristiana.

Nessuno di cotesti congregati si sperimenta migliore di chi non sia di tali corpi e forse uno ci diventa peggiore.

 

Considerazioni ingenerose si diceva, fatte, forse, soprattutto per compiacere il destinatario del documento, ma smentite nella realtà da Nicola Talli nelle sue memorie risalenti ad appena un cinquantennio più tardi.

Il Talli tra le otto confraternite presenti a Lanciano dice, di quella di “San Filippo”, che essa è:

 

 costituita da fratelli signori e civili soltanto. I quali adempiono al pio ufficio dell’accompagnamento dei cadaveri dei loro confratelli, delle sorelle, ed anche di tutti coloro che li chiamano ad associare i cadaveri dei loro parenti in qualunque chiesa[33]

 

confermando così l’impegno, mai venuto meno, dei membri del pio sodalizio in favore dei bisognosi.

Nell’Ottocento la documentazione disponibile per la ricostruzione delle vicende storiche del pio sodalizio diviene più abbondante ed è quindi possibile avere maggiori e più dettagliate informazioni sulle vicende che lo riguardarono.

Gli amministratori o, in altri casi, tutti i membri della Confraternita si riunivano periodicamente nella chiesa di San Giuseppe o San Filippo, com’era chiamata nell’uso comune, e le decisioni venivano prese col consenso di tutti i partecipanti.

La procedura seguita era quella del voto con l’uso delle palle bianche, ad indicare il voto positivo, e delle palle nere per esprimere il parere negativo. Alcune volte si chiedeva da parte di qualche consigliere il ricorso allo scrutinio segreto e anche in questi casi si ricorreva al metodo delle palle bianche e nere. Di questo sistema, adottato anticamente anche dal consiglio decurionale della città, come tramandatoci dagli “Statuti Antichi della Città di Lanciano”, ci resta anche un’interessante testimonianza materiale data dalle pregevoli urne (fig. 27) d’epoca destinate a raccogliere le palle prima dello scrutinio, ancora conservate presso l’attuale sede confraternale.

Il XIX secolo fu un’epoca di grandi cambiamenti, istituzionali, culturali e sociali che trovarono, inevitabilmente, il loro riflesso anche all’interno dell’Arciconfraternita.

Una lettura complessiva degli avvenimenti evidenzia il periodico ripresentarsi di momenti di crisi soprattutto economica, anche gravi, nella vita confraternale. Durante l’occupazione francese vennero fuse le campane di bronzo mentre alla metà del secolo, soprattutto per le conseguenze di alcune cause intentate dall’Arciconfraternita e che la videro soccombente, fu persino necessario impegnare le argenterie presso il Monte di Pietà dal quale vennero provvidenzialmente riscattate dalla generosità di un confratello, gesto che ha permesso la loro conservazione, quasi integralmente, fino ai nostri giorni.

Negli anni successivi all’Unità, quando il Priore e gli altri membri dell’amministrazione furono obbligati a giurare fedeltà (fig. 28) al nuovo governo, troviamo il patrimonio dell’Arciconfraternita assai depauperato, e dalla lettura degli inventari emerge come persino gli arredi liturgici si trovassero in un pessimo stato.

Anni di crisi si diceva, ma anche di grande fermento culturale ed economico, che videro l’aumento della compagine sociale e il suo rinnovamento con l’ingresso di membri delle nuove famiglie del ceto borghese in ascesa.

Nel 1867 i confratelli richiesero al Governo la concessione della chiesa del soppresso convento dei Padri Cappuccini, intitolata a San Bartolomeo, presso la quale è ipotizzabile, avveniva la sepoltura dei confratelli defunti nel periodo che intercorse tra la proibizione delle inumazioni negli edifici sacri all’interno della città e la costruzione del nuovo cimitero.

Risale all’anno successivo la costruzione la costruzione della cappella cimiteriale ad uso dei confratelli nel cimitero di Lanciano, della quale si parlerà più diffusamente più avanti, che pure richiese un notevole impegno.

L’Ottocento, però, è anche il secolo nel quale l’Arciconfraternita della Morte e Orazione va assumendo quelle caratteristiche che ancora oggi la connotano e ne costituiscono gli elementi di identità più profondi e più chiaramente riconoscibili all’esterno.

Cessata la funzione originaria, dare degne esequie agli insepolti, che ne aveva determinato la fondazione, se i riti funebri restano comunque un aspetto importante, ma tutto interno, alla vita confraternale, va assumendo progressivamente sempre maggiore importanza, l’organizzazione della celebrazione dei riti della Settimana Santa nei quali la “Morte e Orazione” finirà col prevalere su tutte le altre confraternite presenti nella Città, che pure, in origine avevano, certamente, un loro ruolo all’interno delle cerimonie che ricordano la passione e la morte di Cristo.

L’ultimo quarto del secolo vede l’Arciconfraternita arricchirsi per il grande contributo apportato dai musicisti Francesco Masciangelo, Francesco Ravazzoni e Francesco Paolo Bellini le cui composizioni ancora oggi vendono eseguite durante la Settimana Santa e accompagnano il mesto procedere delle processioni.

Un patrimonio culturale straordinario che, giustamente, è entrato a far parte della storia dell’intera città di Lanciano.

 

Il Novecento

Con l’inizio del XX secolo l’Arciconfraternita continua a confermare il suo impegno assistenziale nei confronti delle classi più svantaggiate, ma si riscontrano nuovi episodi di contrasto tra il Clero e i confratelli, in una polarità che però risulta totalmente invertita rispetto a quanto avvenuto nel secolo precedente.

Se nell’Ottocento i motivi di divergenza erano da rintracciarsi nelle posizioni conservatrici della Chiesa Romana rispetto ad una società, com’era quella lancianese della classe dominante, fortemente laicizzata, erede di quello spirito giacobino che aveva animato gli eventi del 1799, prima e successivamente all’adesione all’Unità d’Italia, col nuovo secolo le parti sembrano invertirsi.

Oggetto del contendere: le modalità di svolgimento della processione del Venerdì Santo.

Da una parte i confratelli e la popolazione della città che voleva che nulla venisse mutato, dall’altra l’Arcivescovo Angelo della Cioppa[34] (Bellona 14 gennaio 1841 – Lanciano 29 gennaio 1917) che, allineandosi alle direttive romane, intendeva riportare una maggiore severità e rigore a questa celebrazione.

Dietro il generico divieto di effettuare le tradizionali “posate”, ovvero soste durante le quali erano eseguiti i brani musicali, vi erano le nuove disposizioni in materia di musica sacra emanate dalla Santa Sede.

Nonostante una lettera – manifesto del presule (fig. 29)che invitava i confratelli e la cittadinanza al rispetto nei nuovi orientamenti gravi disordini si verificarono in occasione del venerdì Santo del 1904, accuratamente narrati dal giornalista Saverio Basciano (15 agosto 1894 – 28 dicembre 1969) nella sua pubblicazione Il Venerdì Santo del 1904[35].

Fortunatamente le divergenze furono ben presto composte, come riportato nel manifesto stampato a cura dell’Arciconfraternita (fig. 30) l’anno successivo che è anche un documento interessante per ricostruire le trasformazioni subite nel corso dei secoli dai riti della Settimana Santa.

Nel 1910 venne anche completamente rinnovato l’interno della chiesa di San Filippo, sotto l’attenta supervisione del confratello ingegner Filippo Sargiacomo.

Nuovi conflitti con le autorità religiose sembrarono ripresentarsi alla metà degli anni trenta, sempre a causa delle “posate” durante la processione del Venerdì Santo, ma le mutate condizioni politiche e sociali, conseguenti alla fine della Prima Guerra Mondiale, fecero sì che non si rinnovassero i violenti scontri che avevano caratterizzato la primavera del 1904.

Durante gli anni del Fascismo l’Arciconfraternita continuò a portare avanti le sue attività, benché il regime cercasse di estendere il suo controllo anche sulle associazioni a carattere religioso alcune delle quali rischiarono di scomparire, quando si cercò di indirizzare ogni forma di attività assistenziale nello Stato.

Alla metà del secolo, in coincidenza con i tristi avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale la storia dell’Arciconfraternita è contrassegnata dalla straordinaria figura di Monsignor Pietro Tesauri[36] (Cavriago, 28 novembre 1882 – Isola del Gran Sasso, 25 agosto 1945) arcivescovo di Lanciano dal 25 maggio 1939 al 25 agosto 1945, ricordato per il suo eroico comportamento durante l’occupazione tedesca di Lanciano. [37].

Durante la rivolta del 6 ottobre del 1944 non esitò, ai primi spari ad aprire la porta della cappella della cappella di San Gaetano, annessa al Seminario affinché vi trovassero rifugio sacerdoti, donne, bambini del quartiere. Lo stesso Seminario venne trasformato prima in rifugio per i feriti poi in ospedale nel quale di persona assisteva i moribondi e amministrava i Sacramenti. Nonostante non ancora si placava. Non esitò nemmeno, sotto il fuoco nemico, a recarsi sui luoghi dei combattimenti e si tramanda che a lungo restò in ginocchio a vegliare, nonostante la presenza delle sentinelle tedesche, il corpo di uno dei giovani patrioti trucidati.

All’alba del 7 ottobre si recò, a piedi sotto la pioggia, col Podestà Antonio Di Jenno, al comando tedesco per implorare dal capitano Foltsche di non avere altre rappresaglie e di non utilizzare i cannoni contro la Città. Quando il 20 novembre iniziò il primo bombardamento americano l’Arcivescovo accolse tutti quelli rimasti a Lanciano nei sotterranei dell’Arcivescovado e sotto il Ponte di Diocleziano.

Memorabile resta comunque la circostanza che lo vide farsi Cireneo e accollarsi il peso della croce durante il Venerdì Santo del ’43 (fig. 32).

Terminata la guerra, mentre l’Arciconfraternita era parte attiva nelle opere di ricostruzione morale e materiale della Città i confratelli vollero “come atto di filiale riconoscenza e d’affetto nominare S. E. l’Arcivescovo Pietro Tesauri Governatore e Direttore Spirituale Onorario Perpetuo”[38] riconoscendo nella sua opera e nelle sue azioni un esempio eccezionale dello spirito di altruismo che da sempre ha animato il sodalizio e, al tempo stesso, un esempio per tutti i confratelli di Carità e Amore per il prossimo.

Purtroppo pochi mesi dopo, nella notte tra il 24 e 25 agosto del 1945, Monsignor Tesauri morì improvvisamente a Isola del Gran Sasso dove si trovava per predicare in occasione della festa di San Gabriele.

Il 6 ottobre 1953, in concomitanza del decimo anniversario della Rivolta del 6 ottobre, la sua salma fu traslata nella Cattedrale di Lanciano, dove fu tumulata, ai piedi della statua della Madonna del Ponte.

Negli anni ’50 si assiste all’evento forse più traumatico nella secolare storia dell’Arciconfraternita.

Sopravvissuta al decennio francese, quando gran parte delle congregazioni vennero soppresse o costrette dagli eventi a ridurre notevolmente la loro attività, al difficile periodo successivo all’Unità d’Italia, per effetto dell’orientamento laicista degli stati europei ed in particolare del liberalismo capitalistico dell’Italia postunitaria, che mise in crisi la presenza stessa delle confraternite nel tessuto sociale, e di riflesso anche in quello religioso, ed al periodo di appannamento durante il periodo fascista, che voleva secolarizzarle per goderne i proventi, la secolare tradizione dell’Arciconfraternita della Morte e Orazione di Lanciano rischiò di concludersi per un evento davvero imprevedibile.

Il 3 novembre 1952, subito dopo la conclusione dei riti di commemorazione dei defunti, l’Arcivescovo, Monsignor Gioacchino Di Leo promulgò il decreto con il quale dispose il trasferimento in perpetuo dell’Arciconfraternita della Morte e Orazione dalla chiesa di San Filippo alla chiesa di Santa Chiara.

L’intenzione del Presule voleva essere forse quella di dare una sede più decorosa al pio sodalizio, o forse quella di recuperare ad un uso funzionale l’anticha chiesa annessa al monastero delle Clarisse che, stretta com’era tra l’asilo infantile Maria Vittoria e l’Istituto Magistrale, correva forse il rischio di essere adibita ad usi non religiosi, o forse fu la considerazione che un altro uso potesse essere fatto della chiesa di San Filippo, che pure, con eroici sforzi, i confratelli si erano impegnati a riparare dai guasti causati dagli eventi bellici.

Dalla chiesa venne asportato tutto quanto si poteva, l’altare maggiore, le transenne, le opere d’arte, ma non si poterono evitare alcune dispersioni, soprattutto tra le opere minori, nelle carte d’archivio, e, fonte di grande rimpianto, la perdita definitiva dell’antico organo.

Non fu possibile, però, ovviamente, trasportare nella nuova sede i resti dei confratelli che nella quiete della cripta di San Filippo riposavano il loro sonno eterno e questo fu probabilmente tra i motivi all’origine dei gravi malumori che portarono molti aderenti all’Arciconfraternita ad allontanarsene determinando un dissesto anche finanziario che portò, inevitabilmente, ad un lungo periodo di crisi che rese necessario, dal 1955 al 1961, il commissariamento della gestione dell’Arciconfraternita.

Il decennio successivo, sotto la guida dei Priori Angelo Costantini e Alberto D’Antonio, fu caratterizzato dal grande lavoro di ricostituzione dell’antica unità che legava i confratelli e di recupero degli aspetti di maggiore legame con la tradizione religiosa dell’Arciconfraternita: la devozione per San Filippo, l’allestimento dei “Sepolcri” nel Giovedì Santo e la processione del Venerdì con il suo straordinario patrimonio musicale.

Dagli anni ’70, fino ai nostri giorni, l’opera è continuata sotto la guida dei giovani Priori Filippo De Rosa, Giacinto Luciani e Roberto Valerio, il cui ricordo è ancora vivo tra quanti li conobbero e li ebbero cari.

Le cerimonie religiose si sono fatte nel corso degli anni sempre più imponenti per la magnificenza degli allestimenti e soprattutto per la grande partecipazione popolare.

Sono stati recuperati, con attenti e pazienti restauri, i tanti capolavori che costituiscono il patrimonio artistico dell’Arciconfraternita: il simulacro del Cristo Morto e le statue delle tre Marie, la settecentesca pala della Sacra Famiglia, che un tempo si trovava sull’altare maggiore della chiesa di San Filippo, e i dipinti di Francesco Paolo Palizzi, che decorano le pareti della chiesa di Santa Chiara, anch’essa totalmente rinnovata.

Il sodalizio nel suo secolare impegno a favore dei fratelli più svantaggiati continua ad affiancare alla sua originale missione quella della vestizione degli ignudi, con la periodica raccolta di abiti, e soprattutto, in anni più recenti, i confratelli si sono impegnati per la creazione di un Banco Alimentare per la raccolta di cibo da distribuire ai bisognosi.

 

La grande ma ordinata, crescita del numero dei confratelli e dei settori di attività del sodalizio, hanno trovato riscontro nelle iniziative, anche a carattere internazionale, che vedono da qualche anno protagonista l’Arciconfraternita.

E’ giunta ormai alla dodicesima edizione la Via Crucis quaresimale delle confraternite d’Italia, organizzata ogni anno dall’Arciconfraternita Morte e Orazione con il patrocinio della Confederazione delle confraternite d’Italia

Lanciano, dal 2 al 4 giugno del 2006, sotto il Priore Luigi Fratangelo, è stata teatro, del XVI Cammino di Fraternità delle Confraternite delle Diocesi d’Italia[39], che nel giorno conclusivo portò in città oltre diecimila confratelli provenienti da tutta Italia e anche dall’estero (fig. 33)

Le immagini della lunga processione, un corteo religioso formato da migliaia di persone, che attraversarono le vie di Lanciano domenica 4 giugno, dopo la celebrazione Eucaristica presieduta da S. E. Rev. ma Monsignor Carlo Ghidelli Arcivescovo di Lanciano-Ortona e concelebrata da S. E. Rev. ma Monsignor Armando Brambilla Vescovo Ausiliare di Roma e Delegato CEI per le Confraternite ed i Sodalizi, rimarranno ancora per molti anni nella memoria di coloro che parteciparono a quello straordinario evento.

Negli ultimi decenni si è assistito ad una vera e propria rinascita di questa importante istituzione che ha costituito uno stimolo anche per le altre confraternite che ancor oggi si impegnano attivamente e confermano la loro presenza nella Chiesa e nella società con opere di beneficenza e di assistenza.

Un compito forse più facile nei piccoli centri, ma assai più complesso in una città come la nostra dove i cittadini, spesso, identificano le confraternite solo nelle cappelle funerarie del cimitero che esse gestiscono e stentano a credere che dietro i neri cappucci che sfilano durante la celebrazione dei riti della Settimana Santa ci siano uomini e donne che portano avanti col proprio impegno, alle soglie di un altro secolo e di un nuovo millennio, una tradizione secolare orientata all’aiuto degli altri alla luce degli insegnamenti di Cristo.

 

[1] Libro in cui si registrano l’Entrate, Contratti, Rivoluzioni, Elezioni (sic!) d’Officiali, Nomi de’ Fratelli, ed ogn’altro spettante della Confraternita della Morte e Orazione eretta dentro la V.e Chiesa di S. Giuseppe dell’istessa Confraternita della città di Lanciano. Principiando dall’anno mille settecento e diciotto, 1718, Archivio Storico dell’Arciconfraternita della Morte e Orazione di Lanciano, il volume riporta atti fino al 1896 e si compone di 119 pagine numerate.

[2] Alcune fonti, tra le quali il verbale dell’Arciconfraternita del 29 settembre 1892, indicano la data di fondazione al 1556. Tale data non trova, alcun riscontro nella documentazione per ora disponibile.

[3] Ferdinando Fuga (Firenze, 1699 – Roma, 1782) è stato tra i più noti architetti italiani. Quasi tutte le sue opere principali si trovano a Roma e a Napoli. A Roma: la facciata di Santa Cecilia in Trastevere, il Palazzo della Consulta, la chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte, nel 1736 progetta la trasformazione di Palazzo Corsini già Riario. Sempre sua è la facciata di Santa Maria Maggiore e la Chiesa di Sant’Apollinare che realizza dopo il 1748. A Napoli progetta la Cappella Cellamare e lavori al Palazzo omonimo, il celebre e grandioso Albergo dei Poveri, la facciata della chiesa dei Gerolamini del 1780, il Palazzo Caramanico, il Palazzo Giordano, il Cimitero delle 366 fosse a Poggioreale, per l’Ospedale degli Incurabili, e il distrutto Palazzo dei Granili.

 

[4] Cfr. Florindo Carabba, Lanciano un profilo storico – dalle origini al 1860, Banca Popolare di Lanciano e Sulmona, 1995, pag. 243, 285, 300 – 301.

[5] Archivio Storico Diocesano, Busta VIII A 5.

[6] Cfr. Michele Scioli, Il libro di memorie di A. L. Antinori, Edizioni Libreria Colacchi, DASP, L’Aquila, 1995, pagg 44, 425. Michele Scioli, Documenti per la storia di Castel Frentano, Castel Frentano, 2007, vol I, pag. 322.

[7] Michele Scioli, Il libro di memorie di A. L. Antinori, Edizioni Libreria Colacchi, DASP, L’Aquila, 1995, pagg 119 – 120, 149.

[8] Sulle vicende della fondazione della chiesa di San Giuseppe cfr: Alfredo Di Campli e Marcello Ammirati, L’Arciconfraternita della Morte e Orazione sotto la protezione di San Filippo Neri, Lanciano, Casa Editrice Rocco Carabba, 2006, pag. 28.

[9] La Storia di Giuseppe il falegname ci è pervenuta attraverso tre redazioni:

boairica (dialetto copto del basso Egitto), pubblicato nel 1876 da E. Revillout dal codice Vaticano 66-2;

saidica (dialetto copto dell’alto Egitto), composta di tre frammenti incompleti:

  1. Museo Borgia 116 (cc. 4-8);
  2. British Museum Orient 3581 b 11 (cc. 13-15);
  3. Museo Borgia 121 (cc. 13-24);

araba, pubblicata nel 1712 da G. Wallin dal manoscritto della Biblioteca Reale di Parigi 432.

[10] Dal sito www.intratext.com.

[11] L’opera faceva pendant con un dipinto dalle analoghe caratteristiche avente per soggetto San Francesco Di Paola, ora anch’esso presso il Museo Diocesano di Lanciano.

[12] Sulle origini della ricca famiglia Di Suna – Malfigliolo cfr: Michele Scioli Documenti per la storia di Castel Frentano, Castel Frentano, 2007, vol I, pag. 80, nota n° 101.

[13] Le indulgenze delle quali beneficiavano i confratelli vennero riconosciute da Mons. Francesco Maria Petrarca, Arcivescovo di Lanciano, in occasione della Santa Visita del 17 aprile 1877 e sono riportate nel volumetto s. a., Regolamento della Regia Arciconfraternita della Morte e Orazione di San Filippo Neri in Lanciano, Tipografia Nasuti, Lanciano, 1923, pagg. 7 – 9.

[14] Sommario di tutti gl’obblighi de’ fratelli et sorelle della Ven. Archiconfraternita della Morte et Oratíone, con l’indulgenze. Una copia del documento, risalente al 1602, è reperibile presso la sagrestia della cappella della Confraternita del Monte dei Morti di Chieti.

[15] Cfr: Giuseppe Fontana, Il noviziato e l’abito confraternale, in “L’Arciconfraternita Morte e Orazione sotto la Protezione di San Filippo Neri, Casa Editrice Rocco Carabba, Lanciano, 2006, pagg. 162 – 166

[16] Cesare Vecellio (Pieve di Cadore 1521 – Venezia 1601) fu cugino del più noto Tiziano alla cui bottega, per molti anni, collaborò. Si dedicò alla realizzazione di dipinti a soggetto sacro per le chiese della provincia bellunese. A Venezia svolse anche l’attività di miniatore e incisore. Deve la sua notorietà soprattutto alla raccolta Degli habiti antichi e moderni delle diverse parti del mondo, pubblicata a Venezia presso Damian Zenero nel 1590. 500 tavole di costumi europei (361 tavole) d’’Asia e d’Africa. La seconda edizione, del 1598 per i tipi di Bernardo Sessa, ha 87 tavole in più. La raccolta del Vecellio presenta particolare interesse per la storia della moda italiana per le precise informazioni che l’autore unisce a ogni tavola.

[17] Ringrazio per questa importante indicazione il Marchese Nicolas de Piro d’Amico Inguanez, 9° Barone di Budaq, il quale ha anche pubblicato uno di questi ormai rarissimi oggetti nel volume: Nicolas de Piro, The Quality of Malta – Fashion and Taste in Private Collections, AVC Publishers, Malta 2003, pag. 64.

[18] AA. VV., L’Arciconfraternita Morte e Orazione sotto la Protezione di San Filippo Neri, Casa Editrice Rocco Carabba, Lanciano, 2006, pag. 51 – 56.

[19] Omobono Bocache, Storia di Lanciano, manoscritto presso la Biblioteca comunale “R. Liberatore di Lanciano” pag. 276, e AA. VV., L’Arciconfraternita Morte e Orazione sotto la Protezione di San Filippo Neri, Casa Editrice Rocco Carabba, Lanciano, 2006, pag. 51.

[20] Protocolli del Notaio Simone Peschio: 12 marzo 1721, 24 febbraio 1722, 22 giugno 1726. Archivio di Stato di Chieti sezione di Lanciano.

[21] Nel 1644 Francesco Valsecca dispose, con testamento, che tutti i suoi beni fossero impiegati per l’istituzione in Lanciano di un Collegio di Religiosi che si facesse carico “della educazione dei giovinetti tanto in materia di costumi che di letteratura”. Le sue volontà non trovarono attuazione che nel 1734, quando fu aperta la scuola tenuta dagli Scolopi, nell’edificio oggi occupato dal Municipio.

Gli scolopi costruirono anche una chiesa, dedicata a San Giuseppe Calasanzio, abbattuta per la costruzione del Teatro Fedele Fenaroli.

Cfr. Florindo Carabba, Valsecca (Famiglia), in “Dizionario dei Personaggi, della Storia e della Cultura Lancianese” a cura di Raffaele Marciani, Rotary Club di Lanciano, Lanciano, 2006, pag. 75.

[22] Opera del Maestro lapicida Luigi Morgione.

[23] Bocache, U., Storia di Lanciano (Ms. presso la biblioteca Comunale di Lanciano), vol. VII, pagg. 285 – 286 e segue nelle pagg. 301-305. Cfr. p. Osvaldo Tosti delle Scuole Pie, S. Pompilio Maria Pirrotti delle Scuole Pie, Supplemento a cura di  p. Osvaldo Tosti delle Scuole Pie, op. cit. pagg. 72 e 73.

[24] p. Osvaldo Tosti delle Scuole Pie, S. Pompilio Maria Pirrotti delle Scuole Pie,– Supplemento a cura di  p. Osvaldo Tosti delle Scuole Pie, op. cit.72.

[25] Pompilio Maranca sposerà, nel 1772, Egidia Antinori, nipote di Mons. Ludovico Antinori. Da questo matrimonio ebbe origine il casato Maranca Antinori estintosi nei figli di Don Francesco Stella e di Donna Leonilde Maranca Antinori, Don Filippo (1875 – 1964), Donna Marianna (1873 – 1967) e Donna Maria Assunta (1881 – 1967).

[26] Fèlix Labaro Martinez, San Pompilio Maria Pirrotti: Su Persona, Vocacion, Caracter y Fisonomia Espiritual, Madrid 1976.

[27] Lettera scritta al padre da Melfi il 6 agosto 1731, conservata nell’Archivio Museo Pompiliano di Montecalvo Irpino.

[28] Su San Pompilio Maria è possibile consultare il sito internet http://www.sanpompilio.it ed in particolare la ricerca storica e i testi a cura di G. B. M. Cavalletti

[29] Giuseppe Capretti nacque nel 1742 dal Magnifico don Alessandro e dalla sua seconda moglie Gesualda Maranca.

[30] Alfredo Di Campli e Marcello Ammirati, L’Arciconfraternita della Morte e Orazione sotto la protezione di San Filippo Neri, Casa Editrice Rocco Carabba, Lanciano 2006, pagg. 56 – 58.

[31] L’originale di tale documento, su pergamena, è conservato presso l’Archivio Storico dell’Arcidiocesi di Lanciano Ortona, mentre una copia antica è presso l’archivio “Filippo Sargiacomo” attualmente custodito nella Sezione d’Archivio di Stato di Lanciano.

[32] “Rapporto di Don Simone Peschio a Giuseppe Napoleone sullo stato della città [di Lanciano] nel 1806” del 25 ottobre 1806, pag. 6. Il documento fa parte dell’Archivio della Sottintendenza e Sottoprefettura di Lanciano, Archivio di Stato di Chieti – Sezione di Lanciano, Busta 47 fascicolo 1.

[33] Nicola Maria Talli, Statistica della Città e dell’Agro di Lanciano nel 1856, paragrafo 43, manoscritto presso la Biblioteca Comunale “Raffaele Liberatore” Lanciano, Fondo Marciani.

[34] Arcivescovo di Lanciano e Ortona dal 22 giugno 1896 al 29 gennaio 1917.

[35] Cfr. Florindo Carabba, Lanciano un profilo storico – dal 1860 al 1945, Lanciano, Casa Editrice Rocco Carabba, 2001, pag. 292 e Martina Luciani, Pier Paolo Carinci, L’Arciconfraternita della Morte e Orazione sotto la protezione di San Filippo Neri, Lanciano, Casa Editrice Rocco Carabba, 2006, pagg. 85 – 89.

[36] Monsignor Pietro Tesauri nacque a Cavriago il 28 novembre 1882. Ordinato sacerdote il 17 giugno 1905, sin agli inizi del suo ministero si segnalò per l’intensa attività nel settore delle opere sociali. Laureatosi in lettere classiche a Firenze ritornò nella sua diocesi per insegnare nel Seminario. Quando, nel 1919, nacque il Partito Popolare Italiano fu tra i più ferventi promotori partecipando attivamente alla vita politica. Nominato Vescovo di Isernia – Venafro nel maggio 1933 vi rimase fino al 1939, quando passò alla sede vescovile di Lanciano dove fu sempre interessato alla formazione spirituale e morale del suo clero e dei suoi fedeli diocesani. Durante la Seconda Guerra Mondiale monsignor Tesauri tenne un eroico comportamento e in particolare durante l’occupazione tedesca e si impegnò molto al sollevamento materiale e spirituale dei fedeli.

Il Presidente della Repubblica, nel 1959, gli concesse alla memoria la croce di guerra al valor militare e partigiano per la Resistenza.

[37] AA. VV., Mons. Pietro Tesauri, Lanciano, Arcidiocesi di Lanciano Ortona, 2005.

[38] Registro dei Verbali del Consiglio Direttivo, seduta del 20 giugno 1945, Archivio Storico dell’Arciconfraternita della Morte e Orazione di Lanciano.

[39] Nelle precedenti edizioni il Cammino di Fraternità si è tenuto a (Firenze, Lecce, Palermo, Sorrento, Loreto, Bologna, Messina, Assisi, Roma, Campobasso, Taranto, Bergamo, Genova, Catania.

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